giovedì 27 giugno 2013

La fine del digitale?

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E' morta.
Ormai è lampante. Pare che questo maledetto errore dell'obiettivo non dipenda minimamente da polvere o sporcizia negli ingranaggi, visto che l'ho smontata tutta e ho constatato che l'obiettivo scorre benissimo. Infatti riposizionandolo manualmente a fine corsa tutto sembra sistemato: la macchina si accende, vedo il display, i menu, posso zoomare allegramente avanti e indietro e impostare tutto quello che mi pare, peccato che non funzionino né il fuoco manuale nè l'autofocus. Poi, se la spengo, l'infarto: la lente si blocca dopo due millimetri di corsa, il display diventa nero, fa sei beep e dice che c'è un errore nell'obiettivo, consigliando di riavviare la macchina. Purtroppo se premo il pulsante di accensione fa sempre così, a meno di non reinserire un'altra volta l'obiettivo a mano. E comunque una macchina fotografica che non mette a fuoco non serve a un cazzo, diciamocelo. Non è che posso impostarla in modo che lavori sull'iperfocale...
Quindi la diagnosi è "morte elettronica". Io ci speravo quasi che ci fosse della sabbia dentro, oppure una guida rotta. Con la 5700 riuscii perlomeno a pulirla e fare una riparazione alla meglio. Qui non c'è nulla da fare.
Ed è così che ti balena in testa la possibilità di abbandonare il digitale per sempre. Scatto con macchine degli anni cinquanta, sessanta e settanta e funzionano tutte perfettamente, anche quando cadono sull'asfalto da un metro e mezzo d'altezza. La resa è bellissima e il fascino non è nemmeno lontanamente equiparabile.
E' un attimo di lucida follia.
Poi mi torna in mente che per le esigenze di tutti i giorni avere una macchina digtale per il lavoro, per i blog, per tutte quelle applicazioni pratiche in cui la pellicola sarebbe inutilmente dispendiosa e troppo lenta per essere efficace, si rivela abbastanza indispensabile.
Se fossi uno di quei patiti dello smartphone giuro che mi arrangerei con quello. Peccato che non ce l'abbia, io, uno smartphone; e che mi facciano cacare, peraltro. Come se non bastasse, uno smartphone costerebbe più della macchina fotografica (perlomeno di quella che ritengo decente comprare) quindi desolee, mes amis, niente da fare.
Ah, e ovviamente pare si sia bruciato anche l'alimentatore dello scanner. Spero, almeno, sia l'alimentatore; perché se è lo scanner a essere bruciato allora c'è una voce dall'alto che mi suggerisce - evidentemente - di smetterla con le foto.
Forse sarebbe un bene. Non so.
Mi viene quasi voglia di prendere una compattina di quelle da ottanta euro e mandare tutto affanculo. Chissà. Soldi non ce n'è e se lo scanner fosse davvero rotto allora quel poco preferirei investirlo su di lui.
In attesa che qualcuno esca sul mercato con una compatta digitale con display orientabile, ottica decentemente luminosa e pieni controlli manuali che non costi una fortuna.
Per ora, quindi, non se ne parla. Se ho bisogno di una digitale c'è sempre la micro 4/3 di Elena.
Il futuro resta ignoto.

venerdì 21 giugno 2013

Braccia rubate all'architettura

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In momenti in cui il lavoro, per usare un eufemismo, scarseggia, cosa c'è di meglio che dedicarsi all'orto? Un'attività salutare, che riattiva il fisico e resetta il cervello, oltre a fornire un'abbondante dose (se siete bravi!) di verdure e frutta di pronto consumo. Io l'ho fatto e lo faccio con soddisfazione. Basterebbe anche un terrazzo ma con un pezzetto di terra è anche meglio.
Mentre si fanno le semine in semenzaio e si prepara il terreno, il tempo "libero" si impegna per le potature. Un bel divertimento quando c'è da usare la mia ryoba, ovvero la sega giapponese a trazione.
  Poi c'è da sbarazzarsi dei sassi, e da queste parti di sassi nel terreno ce n'è tanti.
Questo era il pezzetto di terra prima dell'impianto e con le patate messe da un mesetto.
Occorre sterrare tutto quanto. Prima le vecchie rape, poi qualche finocchio rimasto dall'inverno passato, ancora buono.
Poi c'è da dissodare a vanga, zappare per rompere la zolla, portare diversi secchi di stallatico, mescolare sempre a vanga e preparare per la piantumazione. I pomodori si mettono in genere nel solco, per semplicità di irrigazione. Io invece ho voluto piantarli in un dosso di terra smossa, in modo da poterci stendere con facilità il telo, che blocca le erbacce e minimizza l'evaporazione dell'acqua, e anche per permettere alle radici di costruire un solido pane di ancoraggio nel terreno leggero che rendesse le piante stabili e massimizzasse l'assorbimento radicale. Quassù nessuno mette i pomodori così. Tutti nel solco. Peccato però che il terreno sia duro. I risultati del mio metodo li vedrete poi :-) Questo è l'impianto delle file di pomodori.
Ovviamente  non poteva mancare una fila di fragole, che di anno in anno va rinnovata e sarchiata.
Nella zona meno assolata si mette l'insalata, in rotazione di crescita in modo da averne sempre di fresca e pronta da cogliere. Anche qui il telo forato salva la vita.
Volete i cetrioli ma non li digerite? Nessun problema: c'è il cetriolo BURPLESS!
Nel frattempo le patate sono cresciute e fioriscono. I fiori della patata fanno uno spettacolo bellissimo nell'orto, oltre alla borragine che cresce in quantità.
Zucchini ad alberello di Sarzana. Ora che è stagione diventa difficile star dietro al ritmo di produzione. Diciamo che si fa la cura, di zucchini. Queste piante a differenza di quelle normali tendono a produrre una sorta di fusto verticale e si alzano dal terreno, sono iperproduttive e gli zucchini non marciscono perché non toccano terra.
 Ma ora è anche la stagione dei lamponi. Anche la siepe di lamponi, che d'inverno diventa solo un groviglio di stecchi spinosi, dopo la potatura drastica e l'eliminazione delle piante secche è diventata la consueta giungla di foglie. I polloni la rimpinguano naturalmente quindi più che da rinnovarla c'è da contenerla. Il pro è che anche di questi, quando iniziano a maturare, ce n'è a chili. L'ultima volta ne abbiamo raccolti 750 grammi in un quarto d'ora, che sono diventati la marmellata della colazione.
 Io ve lo dicevo che i pomodori nel dosso vegetano bene. Questi tra una settimana - dieci giorni saranno maturi. In tre file abbiamo Cuore di bue, Canestrino di Lucca, Pearson, Datterino, Ciliegino, Strombolino e Salentino.
Ecco, ricordate la prima immagine del terreno? Ora è così.
Da piccolo, il mio preferito è sempre stato questo:
Sapevo che mi sarebbe servito!

lunedì 17 giugno 2013

Un buon pranzo

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Coniglio in pentola coll'ulive, patate arrosto e belgian ale.

martedì 11 giugno 2013

Piombino città di confine

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Viviamo da sempre in una città di confine. Piombino è l’ultimo comune a sud della provincia di Livorno e Torre Mozza costituisce il confine con la provincia di Grosseto. Non parliamo con l’accento livornese ma al contempo la nostra calata è già molto diversa da come parlano a Follonica, nei modi di dire, nelle interiezioni, nella pronuncia stessa delle C e dei GL per esempio.


Geologicamente rappresentiamo, col promontorio, una propaggine continentale dell’Appennino, distaccatasi dalla catena principale in tempi remoti e differenziatasi poi per successive formazioni vulcaniche, quelle che hanno dato origine al promontorio di Punta Falcone. Botanicamente veniamo spesso citati come il punto più a nord in cui cresca spontaneamente la Chamaerops Humilis, comunemente conosciuta come “palma nana” (eccettuate alcune minuscole enclave liguri).
Ma se foste d’estate a Baratti, a godervi un bagno ristoratore in una giornata afosa, sapreste dire in che mare vi state bagnando?
La risposta, per quanto strana possa apparire, è “nel Mar Ligure”.
Punta Falcone, infatti, rappresenta geomorfologicamente parlando lo spartiacque tra i due bacini del Mar Ligure e del Mar Tirreno. Quest’ultimo che ha come ingresso a nord il Canale di Piombino, e il primo circoscritto idealmente dalla costa ligure, la Corsica, la costa settentrionale dell’Elba e la costa toscana a nord della nostra città.
Certo, nell’uso comune si tende a chiamare Tirreno tutto il mare fino a Bocca di Magra, ed è innegabile che il principale quotidiano labronico si chiami “Il Tirreno”, ma si tratta in effetti di una convenzione comune che tende a limitare alle coste liguri i confini del mare omonimo.
La prossima volta che dovrete scegliere dove andare al mare ricordatelo: avrete l’imbarazzo della scelta. 

mercoledì 5 giugno 2013

Storie di biciclette

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A volte le cose più belle arrivano inaspettatamente. Qualche tempo fa mi giunge in mailbox un messaggio di Enrico Fossati, fino ad allora a me totalmente ignoto, e il messaggio parla della mia bici. Lui, mi racconta, sa dirmi di più su Peloso, il telaista di Alessandria che ha costruito il mio telaio e perfino su Brian "The Baron" Smith.
Già.
Perché cercando notizie sul web in merito alla Peloso e alla sua storia non si trova quasi nulla se non un post di Mike Barry in cui si descrive questo misterioso ciclista britannico e se ne raccontano le gesta in sella proprio a bici Peloso.
Un breve scambio di email con Enrico ha tirato fuori dal baule della storia tutta una serie di fatti che altrimenti sarebbero andati perduti con gli ultimi che li hanno vissuti e che pertanto voglio ora raccontarvi con le parole esatte che Enrico ha voluto scrivere per me. E' una bella storia. Eccovela.
Alessandro,
poter raccontare queste cose mi emoziona. Da dove inizio?

La farò lunga: spero di non annoiarti.

Premetto che già alcuni mesi fa, cercando con Google il nome Peloso ho visto il tuo messaggio sul ritrovamento della vecchia bici. Quando poi mi sono imbattuto nel Blog di Mike Barry sono quasi svenuto: conosco molto bene le bici Peloso e soprattutto conoscevo molto bene “Baron Smith”.

Dunque, nel 69 a 17 anni, mi scoppia la passione della bici da corsa. A casa mia non è che ne girassero tanti, ma mio papà, visti anche gli ottimi risultati a scuola, nella primavera di quell'anno mi da il permesso di andare da Mario Peloso a prendere le misure per la mia nuova bici. Un sogno!

Allora frequentavo l'Istituto per ragionieri in via Trotti ad Alessandria e spesso, nella pausa pranzo facevo un salto in Via Milano, a sbavare, davanti alla vetrina di Mario Peloso, larga quanto una bici. Per un periodo ne ha esposto una rossa che mi faceva letteralmente andare in estasi: con i mozzi record a flange alte da pista e tubolari di seta.

Spesso Peloso non alzava nemmeno la saracinesca perché non voleva rompiballe in negozio: di lavoro ne aveva fin sopra i capelli. Era alto, pelato e grassottello, parlava solo il dialetto alessandrino ma si intendeva a meraviglia con i clienti Russi, Americani, Belgi, Francesi, Inglesi, ecc. che ho spesso incontrato in negozio: una volta ci ho persino incontrato la nazionale dilettanti russa che stava facendosi prendere le misure per ordinare i telai.
Ha fatto telai per Van Stembergen, Kubler ed altri professionisti che non ricordo. Imparò il mestiere alla Maino, una gloriosa firma dell’Alessandrino.

A maggio del 69, Peloso finisce la mia bici e ci accordiamo di vederci una domenica mattina per la regolazione su di me. Alle 9 sono li, mi mette in bici e torno a casa: 35 km da Alessandria a Vignole, senza abbigliamento tecnico, percorsi in un fiato: sulla mia peloso grigio metallizzato con sfumature verdi sul tubo obliquo e piantone sella; guarnitura Campagnolo, pedali Lyotard, mozzi Record Campagnolo, freni Universal, cerchi Nisi, tubolari Clement Criterium, sella Brooks, manubrio TTT.

Da quel giorno, appena potevo, includevo nell’allenamento il negozio di Peloso e me ne stavo ad osservare la costruzione dei telai e l’assemblaggio delle bici. Mario aveva una precisione maniacale: riprendeva in modo brutale il suo operaio Rodolfo, quando assemblava male una ruota o faceva una saldatura non all’altezza.

Finiva le congiunzioni, prima della saldobrasatura come fossero oreficeria. Aveva progettato e fatto da se il banco dima. Aveva un rapporto diretto con Tullio Campagnolo. Ricordo una volta che, rimasto senza parti gli telefonò personalmente e, ogni tanto gli dava pure suggerimenti tecnici.

Con noi ragazzi scherzava sempre ed era prodigo di consigli. Io ero “quel fanciot che studia l’ingles..”

La moglie era un generale della Wermacht. Lavorava in un’altra azienda e di tanto in tanto era in negozio dove stava dietro il banco e teneva la contabilità. La figlia la incontravo all’università di Genova, aveva qualche anno più di me.
Un pomeriggio d’estate del 72, arrivo in negozio per farmi cambiare il cannotto reggisella: da quello in acciaio alla meraviglia Campagnolo a T in alluminio. Mario mi vede e mi dice in dialetto: “..tu che studi l’Inglese, vai di la a parlare con quel ragazzo Inglese che sta montando la sua bicicletta…”.
E io: “ che ci fa un inglese nel suo negozio ad assemblare la sua bici?..”. E Mario, sempre in dialetto..” è così impossibile da soddisfare che ho deciso di mettergli a disposizione tutto e farglielo fare da se…”. E ciò la dice lunga sulle conoscenze tecniche di biciletta del “ragazzo” inglese.

Il laboratorio/negozio aveva la vetrinetta sulla strada ma l’accesso era attraverso uno stretto corridoio che dava su un cortiletto interno in cui erano posizionate le vasche per il decapaggio dei telai appena fatti. Appena entrati nel cortile a sinistra c’era la zona di lavorazione tubi e la saldatura; da questa, scendendo un gradino, si accedeva ad una stanza, con l’illuminazione quasi sempre accesa per via della vetrina chiusa, con il bancone dove si vendevano ricambi di ogni sorta.

Sul cortiletto si affacciavano altre stanze usate per l’assemblaggio di più bici in parallelo che venivano tenute appese a ganci pendenti da corde appese al soffitto. La stanza in fondo fungeva da magazzino ricambi.

In una di queste stanze “Baron Smith” stava assemblando la sua nuova Peloso blu. Non era più proprio un ragazzo aveva 32 anni ed in realtà si chiamava Brian Smith. La moglie era al mare ad Alassio. Ogni anno, dalla fine degli anni 50, vendeva a Londra la bici vecchia e con il ricavato veniva ad Alessandria a farsene fare una nuova di misura rigorosamente decisa da lui e che Peloso realizzava scrupolosamente.

Brian aveva conosciuto Peloso alla fine degli anni 50 durante un viaggio che doveva condurlo, con un amico, da Londra alla riviera ligure, ovviamente in bicicletta. Alle porte di Alessandria uno dei due ha un guasto. Non sanno cosa fare, non parlano l’Italiano.
Un buon samaritano li conduce al negozio di Peloso. Mario non ha il ricambio ma lo fa costruire appositamente da un amico e sistema la bicicletta. Brian, mentre aspetta si guarda intorno e si innamora a prima vista di quelle bici di qualità, aspetto e tecnica infinitamente superiore alla migliore bicicletta inglese dell’epoca.
I due decidono di non proseguire il viaggio per la riviera e si fermano ad Alessandria facendo amicizia con corridori del luogo e partecipando ai loro allenamenti.

E io, che dico a Brian? Nel mio scarno inglese gli dico che l’anno successivo mi sarebbe piaciuto andare in Inghilterra ad imparare l’inglese. Lui, senza esitazione mi dice: “..se vieni in Inghilterra vieni a casa mia…”. Ma come, penso io, questo mi ha appena visto e già mi invita a casa sua? Diffidenti come eravamo noi piemontesi all’epoca, mi pareva impossibile.

L’anno dopo in primavera gli scrivo che, finiti gli esami, sarei andato in Inghilterra pregandolo di suggerirmi qualche college per studiare ed una sistemazione. Senza esitazione mi risponde dicendomi: “ non c’è storia, dimenticati del college perché con noi l’inglese lo impari addirittura meglio e come sistemazione c’è casa mia..”

A metà luglio del 73 prendo un B 727 alla Malpensa e volo a Londra Luton. Brian mi viene a prendere e mi porta a casa sua: primo viaggio da solo e per di più all’estero, chissà dove finirò, penso. Dopo un paio d’ore di viaggio giungiamo a casa sua nel Surrey e mi presenta sua moglie Jenny. Era domenica sera e mi dicono: “..qua c’è la chiave di casa, noi durante la settimana andiamo al lavoro, ah, vieni di la..e mi mostrano una vecchia Peloso grigio metallizzata… “questa è per te, vacci dove vuoi, e qui c’è una carta geografica…”.

Da quell’anno siamo sempre rimasti in contatto. Lui veniva in Italia ed io lo accompagnavo ad assistere qualche gara. Io andavo spesso a Londra per lavoro ed andavo a trovarli. L’anno scorso la moglie e la figlia sono venuti a trovarci, lui no perché ci ha lasciati il 16/1/2011.

Io del soprannome “The Baron”, attribuitogli perché da corridore si presentava sempre alla gare con un’attrezzatura ed un abbigliamento impeccabili, da nobile, non sapevo nulla. L’ho appreso quando la moglie mi ha chiesto di fargli fare una placca in granito, rigorosamente italiano, lui amava tutto quanto era tricolore, da posizionare sulla tomba.
Quando le ho chiesto: “cosa ci faccio incidere? “..oltre alla data di nascita e morte, fagli incidere “The Baron”…” Ed io “..perché?..” E lei mi ha raccontato la storia.

Scrivo tutto ciò perché Brian non venga dimenticato: mi ha cambiato la vita: mi ha trasmesso entusiasmo, mi ha insegnato ad andare in bici, mi ha aiutato molto con l’inglese che sarebbe poi stato determinante nella mia carriera.

Beh, potrei continuare per pagine e pagine ma chiudo qua: ora hai capito perché Baron Smith ha consigliato ad un anglo canadese di andare a farsi fare la bici da Peloso ad Alessandria risultando, come sempre, molto convincente?

Spero di non averti annoiato e ti saluto, ah…dimenticavo, la mia vecchia Peloso è nella nostra vecchia casa in Piemonte ed io, nonostante i capelli bianchi, fin che posso, vado ancora in bici da corsa, ma ora ..su una Bianchi ed una Cinelli.

Tanti saluti.

Enrico
Come dicevo all'inizio, a volte le cose più belle arrivano inaspettate. Fate tesoro delle vostre storie, e raccontatele agli altri. E' importante che non dimentichiamo.
E mentre ancora cerco notizie su chi fosse in origine il possessore della mia Peloso, il misterioso Del Vivo il cui nome è punzonato sul collarino del canotto reggisella, mi rallegro di averla sistemata e di farla ancora girare in strada. Anzi, sapete una cosa?
Esco.
Ho un appuntamento con un'anziana signora.

lunedì 3 giugno 2013

Honorine la faceva così

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Honorine la faceva così. Stesa su un letto di finocchio selvatico, come per farla stare comoda, nemmeno si vedesse che era morta. E quando decideva di metterne una in forno quasi sempre era perché sarebbe passato Fabio. Allora ci voleva un pesce speciale, una palamita che viva non era ma che avrebbe potuto esserlo, tanto era fresca. Nessun trucco, nessun accorgimento speciale, nessun condimento segreto. Il limone nella pancia, uno di quelli del vaso grande, più per tenerle aperto il ventre e farla cuocere bene che per reali esigenze d'aroma. Il segreto, l'unico segreto di quel pesce era la franchezza. Quello che vedevi era la verità, né più né meno. Quella schiettezza che Fabio stesso aveva sempre apprezzato; a dire il vero per lui mangiarlo quel pesce era quasi un atto di autocannibalismo. Non se ne sarebbe mai reso conto, perché Honorine sapeva come presentargli la cena e fare in modo che pensasse ad altro, che distogliesse lo sguardo da tutti quei morti ammazzati e dallo schifo degli ultimi mesi. Ma lui era quella palamita; momentaneamente disteso su un letto di finocchietto morbido, perché non sentisse tutto il dolore di ciò che intorno a lui urlava disperatamente.